‘Endure’ è un libro che investiga il grande dilemma: perché ci fermiamo? Cosa fa esaurire una prestazione di endurance?
Per gli amanti e i praticanti degli sporti di endurance, c’è un libro definitivo che cerca di fare chiarezza sulla domanda che, da sempre, è tema di ricerche da parte degli scienziati dello sport. Endure, scritto dal giornalista sportivo Alex Hutchinson, compie un lungo viaggio sui limiti fisici di un atleta, o meglio i motivi per cui un atleta esaurisce la sua prestazione.
Alex Hutchinson è un giornalista che scrive di scienza della resistenza per la rivista Outside ed è stato per anni columnist di Runner’s World, oltre che ex corridore di lunga distanza della nazionale canadese.
‘Se l’ha già fatto qualcun altro, posso farlo anch’io’
È questa la frase legata all’aneddoto della prestazione di Roger Bannister, nella primavera del 1954. Fino a quel momento nessuno era ancora riuscito a correre un miglio (1600 m) sotto i 4 minuti. Quando Bannister ci riuscì, in quella fatidica data, nel giro di un anno altri 37 atleti fecero lo stesso e l’anno successivo ben 300 mezzofondisti corsero il miglio sotto i 4 minuti. Il motivo? Era bastato che un atleta ce la facesse, per far sì che anche gli altri sormontassero le proprie barriere mentali.
Fino a un certo punto, i fisiologi affermavano che 3 erano i fattori che potevano limitare una prestazione negli sport di resistenza:
la capacità aerobica, detta anche VO2 Max, ovvero la cilindrata del motore di un’automobile;
l’economia del gesto, che è l’efficienza, ovvero, per rimanere nella nostra metafora automobilistica, quanto l’auto fa con un litro;
la soglia anaerobica, ovvero per quanto tempo si può sfruttare la potenza del motore ad alti giri.
Ma negli anni è emerso che a contare di più è come il cervello reagisce ai segnali di stress lanciati dal corpo. Come dice il ricercatore Samuele Marcora: ‘la resistenza è l’impegno richiesto per continuare a opporsi a un crescente desiderio di fermarsi’.
L’importanza del cervello
Hutchinson prende in esame varie teorie, studi e ricerche che attingono anche a molto lontano, addirittura nell’Ottocento, e scandaglia le risposte di natura meccanica che si è cercato di dare all’esaurimento fisico: disidratazione, temperature elevate, mancanza di ossigeno, esaurimento muscolare…
Non per niente vengono definite ‘cause meccaniche’, come se il corpo fosse davvero un’automobile indipendente dal ‘governatore centrale’, ovvero il cervello: in realtà è proprio il cervello a stabilire quei limiti apparentemente fisici contro cui andiamo a sbattere nel corso di uno sforzo prolungato. Secondo il ricercatore Tim Noakes, i limiti riscontrati durante una prestazione non sono muscolari, ma sono imposti dal nostro cervello, per impedire all’organismo di andare incontro a una reale insufficienza di funzionamento.
Il termine ‘governatore centrale’ viene coniato da Noakes nel 1998 e la storia dell’atleta Diane Van Daren ne è una prova vivente. Questa ultramaratoneta, infatti, a seguito di un intervento al cervello, aveva perso la capacità di percepire lo scorrere del tempo. Quindi, quando correva, non aveva idea da quanto tempo stesse effettivamente correndo. Questo la portava ad avere una marcia in più rispetto agli avversari, perché il suo cervello era ‘vergine’ di ogni valutazione sulla durata della prestazione.
Ma è Samuele Marcora, scienziato dell’esercizio, a fare il twist finale: partendo dalla teoria del cervello come governatore centrale di Noakes, afferma non solo che cervello e muscoli sono inestricabilmente legati, ma che c’è un altro importantissimo attore a fare la differenza, ovvero la percezione dello sforzo. È questo a essere l’arbitro definitivo.
La percezione dello sforzo
Il sistema che Marcora aveva utilizzato per misurare lo ‘sforzo percepito’ è la scala di Borg, coniata negli anni ’60 dallo psicologo svedese Gunnar Borg. La scala va da 6 a 20, dove 6 corrisponde a ‘nessuno sforzo’ e 19 corrisponde a ‘molto, molto duro’. La volontà di fermarsi sarebbe regolata da quanto duro il cervello percepisce uno sforzo e questa percezione è influenzata da determinati segnali fisici come la disidratazione, la stanchezza muscolare (acido lattico), il battito cardiaco che contribuiscono a determinare la sensazione del livello di difficoltà. Gli atleti allenano il proprio corpo ad adattarsi a questi segnali e nel corso del tempo il livello dello sforzo necessario per correre a una certa velocità si abbassa. E per la mente? La psicologia dello sport può modificare questa percezione dello sforzo attraverso una semplice tecnica: il self talk. Ovvero lavorare sulle parole che ci frullano in testa: sono loro che hanno il potere di influenzare le nostre sensazioni.
Come si allena lo sforzo?
Per alterare la relazione tra ritmo e sforzo, Marcora afferma che bisogna ricorrere al self talk motivazionale. Ma quindi il tutto si riduce a un mero ripetersi ‘Ce la posso fare’?! Ad avere semplicemente fiducia nei propri mezzi?
Ebbene pare proprio di sì, ovviamente con l’aiuto degli psicologi dello sport che faranno in modo di instaurare questo dialogo con sé stessi nella modalità migliore. Più si lavora sulla testa (dopo aver lavorato su tutti gli altri parametri fisici con l’allenamento), più si riuscirà a fare la differenza in una gara di lunga distanza.
Si può senza dubbio migliorare il proprio stato di forma dal punto di vista fisiologico, ma la strada che fa la differenza è quella che sviluppa la capacità di tirare fuori da sé stessi la propria forza di volontà, di saper attingere appieno al proprio serbatoio. Esattamente come disse Eliud Kipchoge a un giornalista nelle settimane precedenti al primo evento di Breaking2: ‘Sono pronto ad affrontare l’ignoto con la consapevolezza di avere fiducia nei miei mezzi’.
Il record della maratona
La narrazione di tutto il libro avviene in parallelo alla ricerca del record della maratona sotto le due ore compiuta da Eliud Kipchoge, durante l’evento Breaking2 sponsorizzato da Nike. Il primo tentativo è avvenuto a Monza il 6 maggio 2017, dove Eliud ha chiuso qualche secondo sopra le 2 ore; la seconda prova si è svolta a Vienna il 19 ottobre 2019, conclusasi con l’incredibile tempo di 1h59’40”. Certo, la prestazione è stata ‘viziata’, visto che Eliud ha corso con lepri davanti a sé, in una formazione ‘a freccia’ e con un’auto che precedeva segnalando le posizioni migliori dove mettersi. Ma lo scopo (tra gli altri) è stato di ricreare un ‘effetto Bannister’, ovvero di spianare la strada a qualcun altro che, in condizioni non artificiose, tenterà di fare la stessa cosa in una maratona regolamentare.
Perché la mente rivaluta i limiti in base a quello che sa essere umanamente possibile…
Autore: Redazione Tuttorunning
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